Terlizzi50: poeta della memoria e della storia
Testo a cura di Davide Speranza
Pier Paolo Pasolini volle ambientare “Il Vangelo secondo Matteo” a Matera. Non prese in considerazione quella Palestina, che pure era stata dannata dalle nuove leve del consumismo e dalla trasformazione del secondo Novecento. Il suo sguardo profondamente antropologico, profondamente centrato sull’umano, profondamente e disperatamente costruito – nel tempo – intorno al dilemma della mutevolezza della storia, fu implacabile nella scelta. Sapeva, Pasolini, che solo laddove le pietre sono pietre e la terra è ancora terra avrebbe potuto esserci la giusta distanza tra i fatti narrati dall’evangelista e le immagini puntellate in bianco e nero della pellicola. Una terra preistorica, quella materana, che dava il peso del destino umano. Da questa stessa pietas che spacca le interiora e le ossa per “succhiare tutto il midollo della vita” – per dirla con il poeta americano Henry David Thoreau – trae origine l’incandescenza di Ernesto Terlizzi. L’artista di Angri ha fatto una scelta, quella di iniziare e chiudere, a Matera, un percorso durato 50 anni, cresciuto dentro i parti e le ferite del suo atto creativo. Lo fa, sulla soglia del settantesimo compleanno, mettendo in mostra la sua guerra personale. È in Basilicata che inizia il viaggio, quando negli anni Settanta viene chiamato ad insegnare nelle scuole dell’entroterra lucano, un decennio 69-79, dove si ritrova lontano dallo sfacelo sociale dell’area agro-vesuviana. Qui apprezza la verità dei rapporti tra gli autoctoni, viene irretito dalla cruda bellezza della realtà contadina, quella bellezza vicina ai dipinti di Van Gogh, dove anche attraverso i colori e le tele si muovono i profumi acri del sudore, della rabbia e dell’inconsapevolezza. Terlizzi arriva dalle lezioni dell’Accademia, i suoi maestri napoletani del rinnovamento sono Armando De Stefano, Gianni Pisani, Domenico Spinosa, Carmine Di Ruggiero che lo introducono in una nuova dimensione astratta. Con il trasferimento in Lucania e la scoperta del mondo del Sud, ripensa a pittori come Renato Guttuso, Luigi Guerricchio, Ortega e, grazie alla nuova visione astratta acquisita a Napoli, recupera, attraverso il segno figurale, l’amore per la natura ed il mondo dell'uomo che cerca di riproporre sul piano allusivo, non più in chiave neorealista. In Basilicata le cose acquistano un valore altro, le sfaccettature emozionali si moltiplicano, l’analisi sociale solidifica certezze di potente narrazione sociale. Terlizzi capisce la forza del segno e sarà il segno l’elemento distintivo. In una delle sue opere più importanti, “Ultime tendenze nell’arte di oggi”, Gillo Dorfles, scriveva: «È un dato di fatto che a partire dall’immediato dopoguerra, in diversi paesi e centri artistici, a Parigi come a Tokio, a New York come a Roma, si è venuto evidenziando un genere di pittura basato soprattutto sulla velocità dell’esecuzione e sull’impiego prevalente di elementi graficamente differenziati piuttosto che sulla stesura di ampie superfici colorate». Ecco Terlizzi apre ad un ibrido, mescola le carte e reinventa le regole del gioco. Basa la sua ricerca sul rapporto uomo-natura. La figura umana è dentro il paesaggio, non fuori. È costola della natura, non elemento a parte. A Matera riscopre le contraddizioni dell’esistenza riverberate dalle ingenuità di un territorio che non sa dire altro che la verità su se stesso, gli amori nascosti, le devastazioni, le tradizioni sguaiate, gli asini che si ritirano dalla campagna, donne incinte, contadini piegati sotto il sole e schiacciati dai poteri invincibili, radici, mani deformate, ammassi di carne ramificata, pulsioni di labbra e rabbia. Terlizzi sviluppa una visione di elementi naturali antropomorfi. Dalla terra emergono fette di pelle, sorrisi smorzati, gambe e teste più simili a bulbi, fusti in crescita che nel liberarsi verso l’alto prendono forme primordiali. Non è più l’età del vedutismo dai plumbei risvolti. L’artista compie una riflessione violenta sulle brutture della società, ma approda ad una leggerezza simile, nel concetto, a quella di cui avrebbe parlato in seguito Italo Calvino nelle “Lezioni Americane”: «Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio…è sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello». Terlizzi applica quella poetica della leggerezza nei suoi quadri, egli è un poeta della memoria e della storia, i segni pittorici sono lettere trasfigurate che sopravvivono all’oggi, anno 2019, quando porta, in estate, i suoi nuovi lavori ancora una volta a Matera, celebrando così la cittadina capitale europea della cultura e mostrando un’amplificazione dei mezzi e dello studio geometrico. Tra queste due anagrafiche del pittore, tra queste due Matere, lo sguardo di Terlizzi si è affinato. Non solo china, olio o acrilici. Utilizza materie estrapolate dalla realtà e le trasforma in rievocazioni della stessa. Legni, pietre, barattoli, garze. La pittura si fa lentamente scultura. I demoni dell’umanità e i suoi arcangeli sfondano la parete ed entrano nel plesso solare dell’osservatore. Su tutto, si distingue la piuma-lama, sempre simbolo di quella leggerezza che incide nell’animo e nella emozione, sopra e sotto la superficie della coscienza. La lenta trasformazione di Terlizzi si individua negli anni Ottanta, quando torna in Campania e ad accoglierlo c’è ancora una volta la tragica ineluttabilità di quella natura che tanto aveva ispirato Giacomo Leopardi. Il terremoto sconvolge l’intera Regione, rasando al suolo borghi e città, mietendo vittime e seminando urla cui faranno seguito solo gli scempi della camorra e della politica corrotta. È il momento in cui prende ad usare materiali di ogni tipo, come le garze, il catrame, gli stucchi, lamiere. La pittura non è solo segno, è apice tattile. La sua passione non è mai stata così alta, per certi versi accostabile a quando aveva 6 anni, l’età in cui gli era scoppiato nel cuore l’amore per l’arte, grazie ad un regalo prezioso di suo padre: una tavolozza di cartone con acquerelli e tasselli colorati. Il bambino curioso diventa voce di denuncia, urlo contro le caste, contro i deplorevoli egoismi degli uomini-nonumani, degli uomini bestia. La sua ricerca si acuisce con il recupero del colore, una esigenza che trova soluzione nel desiderio di stemperare il dolore, nel rimettere in moto gli animi e ristabilire la speranza di una rinascita dopo il terremoto. L’analisi si ramifica, fino ai territori vesuviani e alle dolorose voragini di Sarno, quelle frane ancora una volta simbolo di una Natura che non perdona i propri figli. Terlizzi lavora su carte speciali tibetane, le figure a forma di piuma diventano barche in balia delle onde e di orizzonti scomposti, l’acqua come inizio e fine della vita umana, racconto trascendentale dell’umanità nei paesaggi ispirati al mare. Ovunque è allegoria, i chiaroscuri si affastellano fotografando borghi e insediamenti umani metafisici e disabitati. Sono le vedute di un artista che continua a raccontare il suo tempo. Ne è esempio il suo personale punto di vista sulle “terre dei fuochi”, quando utilizza la superficie ondulata e irregolare dei cartoni, per rappresentare il senso dello stupro. Uomo, natura, storia, memoria. Terlizzi, nel farsi Omero a cavallo di due secoli, dipinge se stesso, la sua sensibile presenza nel mondo, incarna le fattezze di un cantore capace ancora di sintetizzare il legame tra carne e terra, musica dell’anima e suono battente del sottosuolo, fuoco apocalittico e inesorabile corsa del tempo.